mercoledì 26 giugno 2013

Ti troverò, infine

Alberto uscì dal carcere un giorno di Giugno:  con un sacchetto in mano guardò la piazza polverosa immersa in una luce accecante. Barcollando si lasciò portare dalle gambe verso il centro. Girò attorno a largo Antenore: pattuglie di polizia e vigilantes lo tenevano d'occhio e ne registravano i movimenti comunicandoseli via radio.

Passò per piazza Matteotti: due compagnie di giovani stazionavano ai due estremi, come cinque anni prima. Li conosceva quasi tutti ma forse era troppo cambiato perchè nessuno lo riconobbe nè lo salutò.
A casa sua esaminò la fila dei campanelli ma non trovò il proprio cognome nè quello della moglie. Suonò comunque quello che era il suo: un volto sconosciuto si sporse a domandare chi è. Alberto lo guardò muto per qualche manciata di secondi, poi si allontanò in silenzio mentre quello continuava a urlare: «Chi è lei? Cosa vuole? Chi cerca?»
Camminò un pezzo forse a caso o forse no perchè si trovò davanti al Centro Donna. Una grande casa rosa con una alta recinzione e filo spinato in cima. Alcune torrette con cristalli a specchio anti-proiettile sugli angoli, vigilantes di colore con il mitra a tracolla. Si sedette sul marciapiede opposto ma vennero a chiedergli di andarsene. L'uomo, armato, con una mimetica ed equipaggiamento da guerra, gli fece cenno con le mani di sloggiare, accompagnandosi con qualche gergo incomprensibile, africano o arabo indugiò Alberto.

La Serbilla, ragionava, era ben protetta, guardata a vista, quasi si trattasse di un capo di stato. Forse poteva puntare sul pubblico ministero, forse in tribunale c'era meno sorveglianza. Il mattino dopo avrebbe provato.
Al momento si trovava solo, in una città che era per lui quasi come un deserto. Aveva una notte da passare in qualche modo. Così, continuando a camminare senza meta, si trovò davanti alla casa di Martina. Era quasi sera, rimase a riflettere guardando il campanello e respirando l'aria che rinfrescava.
All'improvviso una voce lo sorprese da dietro chiamandolo per nome. Era la madre di Martina, lo abbracciò come se fosse stato suo figlio e lo costrinse a salire in casa. Sulla soglia trovarono il marito, il padre di Martina, e anche lui lo abbracciò con affetto. Lo fecero sedere e gli offrirono un bicchiere di vino bianco, una bottiglia di prosecco stappata per lui. Non gli era mai accaduto, forse, forse, il giorno del matrimonio, ma non ricordava bene.
Alberto era impacciato.
Gli chiesero come se la passava, cosa avesse fatto in carcere, se avesse voglia di ricominciare a vivere. Lui rispondeva evasivamente, poi li interruppe cercando una spiegazione: «Mi dispiace per quello che è successo, mi rendo conto che non avrei dovuto farlo.»
Loro lo guardarono sorpresi:  «In che senso? lo sappiamo che è stata una cosa di comune accordo, che non c'è stata nessuna costrizione.»
«È vero, ma Martina potrebbe essere mia figlia per l'età, forse avrei dovuto essere più padrone di me stesso. Ma era notte, ero mezzo cotto dal sonno e dalla birra, e non ho mai conosciuto una ragazza più bella di Martina.»
«Martina a noi ha detto», riprese il padre parlando anche per la moglie «che per lei è stata una fortuna incontrarti. Mi rendo conto che noi abbiamo criteri diversi, i giovani parlano molto, forse troppo, con il corpo. Lei aveva bisogno di sentirsi amata, aveva bisogno di cancellare quello che le avevano fatto e pensava di farlo così. Se tu ti fossi rifiutato, forse lei avrebbe avuto ancora di più la sensazione di avere qualcosa di sbagliato. Non ti devi rammaricare: lei ti è grata perchè l'hai accolta così come era e l'hai amata senza secondi fini in quel momento così come era. Solo quello l'ha aiutata a superare quello che le era successo, a non restarne prigioniera.»
Alberto ascoltava cercando di digerire le cose che sentiva e si distendeva: si era portato dietro per cinque anni il rimorso di non essersi comportato da uomo, di essersi lasciato andare. E forse era anche vero, ma le persone comunicano in tanti modi, non sempre sono i modi migliori, ma ciò che si dicono va oltre il modo in cui se lo dicono. Era contento perciò di sentire che Martina provava dell'affetto per lui e aveva capito che anche lui ne provava per lei e che quella notte lui c'era con tutta l'anima.
Avrebbe voluto vederla negli occhi e dirglielo, adesso. Ma dov'è adesso Martina?
«Non te l'ha detto?» intervenne la madre, «eppure sapevamo che ti scriveva.»
Alberto guardò ora l'uno ora l'altra sospeso alle loro labbra.
«È in un convento, su un monte vicino ad Assisi.»

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