mercoledì 26 giugno 2013

Avvocato d'ufficio

Il primo giorno hanno preso in consegna i suoi effetti personali rilasciandogli una ricevuta e assegnandogli una cella di isolamento.
Il secondo giorno lo ha passato davanti alla televisione e cercando di parlare con agenti sordomuti.
Il terzo, finalmente fu convocato dal magistrato in una stanza enorme con un unico vecchio tavolo dove una donna acida lo attendeva consultando enormi fascicoli.

«Lei conosce Martina Sconsolati signor Innocente?»
«Certo, è una mia vicina di casa.»
«Vuole nominare un avvocato?»
Alberto ci aveva riflettuto per tre giorni e sapeva bene che non poteva permetterselo.
«No, grazie. Spero che non ce ne sia bisogno e tutto si chiarisca velocemente.»
«Lei ha avuto rapporti sessuali con Martina?»
«Si, uno. Ma che problema c'è? È maggiorenne ed era consenziente. È stata lei a cercarmi.» 
«Martina aveva bevuto? Era ubriaca?»
«Forse qualcosa, perchè? Che centra?»
La giudice snocciolò annoiata: «Articolo 609 ter: la pena è aumentata se il fatto è compiuto con l'uso di sostanze alcoliche o nei confronti di persona in stato di disabilità psico–fisica anche temporanea.»

Il giorno del processo il cellulare della polizia carceraria si fermò davanti al tribunale in mezzo ad una folla di donne che urlavano agitando cartelli e striscioni. Alberto uscì difeso da un cordone di polizia che tratteneva a stento le scalmanate. Una bottiglia di coca cola, per fortuna di plastica e mezza vuota, lo colpì sulla fronte.
Le urla della folla giungevano fin dentro l'aula del processo. Una donna presiedeva, con un volto secco e tirato come una mummia, neppure gli occhi rivelavano un residuo vitale.
Tra il pubblico scorse i genitori di Martina e lo colpì che fossero in silenzio, quasi imbarazzati e lo guardassero con compassione.
Sua moglie non c'era, non c'era nessun parente e nessun amico. L'unico che si rivolgeva a lui, con tono distante e formale, era l'avvocato d'ufficio. Tutta l'aula era gremita di donne invasate, che continuavano ad urlare con occhi spiritati anche quando il giudice ordinò il silenzio.
Le varie formalità si susseguivano con lentezza esasperante. Alberto attendeva con impazienza la testimonianza di Martina.
Finalmente la fecero entrare. Pantaloni larghi, camicia bianca abbottonata fino all'ultimo bottone, giacca nera. Era un'altra donna dall'ultima volta che l'aveva vista.
Con delicatezza e tatto il Pubblico Ministero, un uomo tarchiato e abbronzato dall'accento e la cerimoniosità meridionale, la fece sedere e cominciò ad interrogarla.
A partire da quando incontrò Alberto tornando a casa, nei pressi di largo Antenore.
Martina rispondeva piano, quasi sottovoce, guardando per terra.
Poi smise di parlare e rimase in silenzio alle sollecitazioni del magistrato che voleva sapere se riconosceva tra i presenti l'uomo che l'aveva violentata.
Ad un tratto Martina alzò la testa e urlò: «Sì, è lui, è Alberto Innocente che incontrai quella sera. Ma non fu lui a violentarmi, lui è Innocente di nome e di fatto!»
Il Pubblico Ministero le si avvicinò con un pugno alzato, urlando più di lei: «Signorina Sconsolati l'ho avvisata: lei non può ritrattare la sua denuncia: Se ritratta dovrò procedere penalmente anche contro di lei e comunque il signor  Innocente verrà condannato anche senza la sua testimonianza.»
«Non importa se mi mettete sotto processo, se divento io la vittima, io so bene come sono andate le cose.»
«Lei era ubriaca!»
«Avevo bevuto qualcosa, ma non tanto da non sapere quel che facevo.»
«Gli esami medici hanno confermato che lei ha avuto un rapporto sessuale con Innocente.»
«Sono stata io a volerlo, avevo bisogno di essere consolata, coccolata, perdonata.»
«Quindi Innocente ha approfittato di una sua condizione di momentanea difficoltà e particolare vulnerabilità» concluse raggiante il Pubblico Ministero volgendole le spalle.
Il pubblico sul fondo rumoreggiava. Grida isteriche incitavano Martina a non avere paura, a non ritrattare, altre insultavano Alberto: infame, violento, mafioso.

Alberto passò in carcere cinque anni e ogni mattina si alzava promettendosi: quando esco l'ammazzo. Intendeva che avrebbe ammazzato la giudice mummia e il Pubblico Ministero arrivista e lecchino. Poi aggiunse anche la giornalista Serbilla, una attivista dei diritti delle donne responsabile di un Centro Anti Violenza in città.
Passò ogni singolo giorno a riflettere sui particolari, a raccogliere notizie, a pregustare la gioia che avrebbe provato guardandoli negli occhi e sibilando: muori.
Con il passare dei mesi il suo odio si appuntò sul giudice e cresceva ascoltando i racconti degli altri detenuti. La sognava come una enorme cavalletta carnivora, secca e disumana. Si sorprendeva a sudare freddo sentendo su di sè i suoi occhi di ghiaccio senza emozioni. Ma ancor più prese ad odiare la Serbilla: aveva raccolto i ritagli di giornale nei quali parlava di lui e aveva capito con che spirito lo avevano accolto le donne fuori dal tribunale il giorno del processo. Fin dal giorno dell'arresto con una campagna martellante la Serbilla lo aveva presentato come un essere senza cuore che aveva approfittato di una povera ragazza ubriaca sulla via di casa. Aveva quindi affondato il coltello descrivendo sua moglie e i suoi figli all'oscuro della sua perversione e doppia personalità e presentando i fallimenti e le delusioni di tutti i suoi famigliari come di una responsabilità sua.
La Serbilla era un essere immondo, la carne che le gonfiava le guance lasciava supporre un qualche disordine alimentare o perlomeno metabolico, ogni riga che scriveva grondava cattiveria e supponenza, i suoi giudizi erano sempre definitivi e netti. I colevoli venivano additati alla riprovazione generale senza ripensamenti.
Alberto non poteva guardare le foto della Serbilla senza un crampo allo stomaco. In nessuna occasione la giornalista fece cenno alla ritrattazione di Martina, alle lacrime con cui lei aveva chiesto perdono a lui. Al contrario i suoi articoli erano colmi di avvertenze nei confronti dei meccanismi con i quali la società maschilista e patriarcale colpevolizzava le donne vittime di violenza: non faceva che attaccare il sistema giudiziario per la pressione a cui sottoponeva le vittime, che venivano violentate due volte, si infuriava perchè i giudici insistevano a chiamare le donne a testimoniare e non si accontentavano dei dati raccolti in istruttoria. Era una formalità del tutto inutile, considerato che gli unici fatti di cui tenere conto erano quelli esposti al momento di presentazione della denuncia. Tutto sommato aveva ragione, senonchè escludere la testimonianza della vittima al processo avrebbe scoperto troppo il meccanismo perfido che condannava a priori, per presunzione.

Da quando fu incarcerato Alberto non ebbe più alcuna notizia nè della moglie nè dei figli. Solo una lettera o una cartolina gli arrivava puntuale a Natale, a Pasqua, il giorno del compleanno o dell'onomastico. Era Martina che gli scriveva e gli chiedeva perdono in ogni modo, anche solo con una firma.


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