Per rispetto delle antiche tradizioni,
anzitutto. Perchè quando Dio creò il Giardino delle Delizie, diede
ad Adamo in cibo ogni erba che produce seme e ogni albero che produce
frutto.
Quando i progenitori furono cacciati,
il padre andò ramingo per la terra che si era fatta avara e
produceva cardi e spine e preso dalla fame gustò la carne dei
viventi. Se Caino fosse stato al posto di suo padre, non si sarebbe
fatto imbrogliare, non avrebbe mangiato del frutto proibito.
Spesso,
nelle fredde sere d'inverno, mentre nella notte oscura urlavano di rabbia i lupi, o nelle tiepide sere estive guardando le stelle che
parlano d'amore e ascoltando il racconto degli inizi, Caino si era
sentito prendere da una acuta nostalgia.
Come era stato possibile farsi
imbrogliare così, se c'era una regola, se di tutti gli alberi si
doveva evitarne uno solo, perchè suo padre aveva fallito? È
vero che era stato l'astuto serpente ad imbrogliarli e Caino pensava
che Dio non doveva essere poi tanto furbo né intelligente se aveva
creato il serpente. A meno che il suo fine non fosse giustapposta ingannare l'uomo fatto a propria immagine, quindi in qualche modo ingannare se stesso.
Ad ogni modo lui era deciso a tornare
nel Paradiso dell'inizio, a qualunque costo. Per cominciare osservava con estremo puntiglio tutti i comandamenti, scritti e non scritti. La faccenda di non mangiare carne era tra quelli non
scritti, ma era fuori di dubbio che si trattave prendersi avanti,
guarire in qualche modo già da subito il mondo caduto. Dio aveva
dato all'uomo da mangiare le erbe che producono seme, quello era il
suo disegno, come il mondo avrebbe dovuto andare.
Quando l'angelo con la spada di fuoco
aveva cacciato suo padre e si era messo di guardia all'entrata del giardino, erano
cominciati i dolori. Sua madre percorreva chilometri e chilometri in
cerca di una radice o di una bacca commestibile. Suo padre quando
proprio aveva tanta fame, saliva su una roccia e mirava all'animale che passava sotto e colpirlo con una pietra sulla testa.
Adamo dava un nome ad ogni essere, non
solo agli esseri nel loro insieme, ma anche ad ogni singolo essere
vivente o inanimato. Ad esempio, per lui non c'erano solo le pecore,
ma ogni singola pecora aveva il proprio nome. Perciò quando la sera
attorno al fuoco si mangiava la preda del giorno, lui la chiamava per
nome e la ringraziava e raccontava di dove era nata, come era vissuta,
se aveva avuto figli e quanti e come si chiamavano a loro volta.
Andava avanti per ore a dire chi era nato da chi e chi aveva generato
chi.
Ma intanto la mangiava e Caino sapeva
che le cose così non erano dritte.
Perciò quando crebbe ritenne che per
tornare al Giardino Perduto doveva anzitutto non mangiare
carne.
Caino era convinto che il metodo apre
qualunque obiettivo. Intelligenza, metodo e costanza. Si organizzò,
costruì dei gioghi e li pose sulle spalle dei buoi, costruì un
aratro e lo piantò nella terra e girò sottosopra le nere zolle.
Quelle girate verso il sole si rivelavano piene di esserini, talpe e
grillotalpe, formiche e termiti, e dietro l'aratro si formava sempre
un piccolo stormo di uccelli grati per il pasto lauto e immeritato.
Poi raccolse in grandi orci la semente
e dopo l'aratura la sparse sulla terra nera.
Caino lavorava sodo, e duro e con
metodo. Ma raccolse i frutti di tanta fatica e divenne ricco.
Caino aveva un fratello più giovane,
Abele. Abele era sempre con la testa sulle nuvole, avevano ascoltato
insieme i racconti della caduta e la descrizione del prima, ma Abele
non sembrava affatto triste per ciò che avevano perduto. Sembrava che si trovasse bene anche in questa valle di spine. Trovava
il modo per scansare sempre le fatiche e i dispiaceri. Si era
circondato di animali che proteggeva dai lupi e dai leoni e li
portava a pascolare sulle montagne e ad abbeverarsi al torrente che sgorgava da Eden. Quando aveva
fame ne prendeva uno, lo sgozzava e lo metteva a cuocere. Abele non
sarebbe mai tornato al Giardino, mai, pensava tra sé Caino.
Talvolta arrivavano alla casa di Caino
uomini stranieri, con volti difficili e accenti oscuri. Caino li
portava dal fratello, il quale subito uccideva un agnello e mentre lo
cuoceva offriva loro latte e yogurt. Caino accettava solo acqua e
raccoglieva l'apprezzamento di quegli uomini sconosciuti che ne
riportavano nelle loro terre la fama di grande asceta. Così si
diffondeva per il mondo il suo onore, anche se la carne arrosto e il
latte dolce velavano il cuore di coloro di una nostalgia più dolce e
tenace.
Talvolta tra l'erba alta del campo, con
un guizzo il serpente scattava al passare di Caino. Lui rapido ne
tranciava la testa, poi raccoglieva la coda che si muoveva ancora
senza scopo e con quella spaventava i bambini e le donne. Caino odiava
i serpenti, non perdeva occasione per dar loro la caccia e ucciderli.
Dio aveva sbagliato a crearli e lui si impegnava a correggere
quell'errore. Il mondo creato era un mondo quasi perfetto: con un po'
di lavoro si poteva migliorare di molto, ma restavano delle mancanze.
I serpenti erano una di quelle. Poi c'erano gli insetti. Perché mai
Jahvè li avesse creati era davvero incomprensibile, strizzava gli
occhi nel vento caldo Caino. Poi con un gesto rapido della mano
coglieva la mosca al volo, la schiacciava nel palmo e soddisfatto la
gettava nella polvere. Questo errore era più difficile da correggere
di quello dei serpenti, bestemmiava Caino. Ma ogni cosa a suo tempo,
studieremo una strategia e con metodo procederemo ad eliminarli
tutti. Dopo saremo quasi in Paradiso, diceva tra sé.
Talvolta la notte sentiva di lontano il
belare e il muggire delle mandrie di Abele portati dal vento. Allora
si alzava e correva ai bordi del campo e le allontanava con urla e
bastonate. Avevano fatto un patto: che le bestie di Abele dovevano
stare lontane dai campi che lui coltivava. Lui avrebbe versato
al fratello una certa quantità di orzo e grano, ma quegli doveva tenerle
lontano.
Talvolta invece nei campi banchettavano
le bestie selvatiche: quando se ne accorgeva Caino le inseguiva e le
ammazzava a bastonate, lasciando quindi i cadaveri sul terreno a
riempirsi di mosche.
Eva, la madre di tutti i
viventi, era ridotta ad uno straccio. Sempre di corsa, chilometri e
chilometri per mettere qualcosa sotto i denti. Era una donna, non
aveva la forza per rovesciare la terra né per tenere lontane le
bestie selvatiche e domestiche. Caino ne aveva compassione e talvolta
le faceva trovare un po' di sementi. Ma riteneva che si meritasse la
vita che faceva. In fin dei conti era colpa sua se si trovavano dove
erano. Che non fosse una donna intelligente si vedeva anche dal fatto
che ogni anno rifaceva quel che aveva fatto l'anno prima, non
imparava dagli errori, non applicava l'intelligenza a migliorarsi la
vita.
Come avesse fatto suo padre a farsi
ingannare da una donna così, anche questo Caino non capiva. Quando
lei gli offrì il frutto dell'albero, Adamo avrebbe dovuto
risponderle: "zitta donna, stai al tuo posto". Così infatti Caino
trattava la moglie e le cose filavano che era una meraviglia: come un
meccanismo ben oliato era la sua fattoria.
Già di lontano, scendendo dai monti,
si vedeva il segno della mano di Caino: sistemi di irrigazione,
piante verdi e rigogliose mentre al di là del suo territorio sterpaglie spinose
morivano d'arsura. Alberi fioriti e carichi di frutti, prati verdi e
dorati di qua: lo splendore del Giardino sembrava aver ritrovato casa in
questa valle di spine. Talvolta la sera, con le ossa rotte dal lavoro,
Caino si lasciava andare su una sedia a dondolo fuori dall'uscio di
casa e guardando il sole infiammare l'orizzonte sognava che fosse
vicino il giorno del ritorno, e sognava di sentire Jahvè passeggiare
nella brezza e prenderlo per mano e parlargli e sognava di non dover
più lavorare e che gli alberi crescessero senza fatica rigogliosi e
facessero frutti durante tutto l'anno.
Capitò che Caino stesse seduto su di un pozzo volgendo le spalle al sole al tramonto e seguendo la propria ombra che si allungava verso i confini della terre e puntava all'orizzonte verso le montagne nere. Caino immaginò che sarebbe stato bello estendere la proprietà fino all'orizzonte, ma allora avrebbe avuto bisogno di una aiuto per tenere lontane le bestie selvatiche. Fu allora che pensò di fare un patto con i lupi: lui li avrebbe sfamati e loro avrebbero sorvegliato i suoi confini. Come suo fratello allevava agnelli, lui avrebbe allevato, appunto, lupi.
Piacque la sua proposta a Bogondir e alla sua banda, un branco di lupi reietti. Lui mise al loro collo una catena e davanti alla cuccia una ciotola e loro impararono il terrore delle notti senza luna quando abbaiavano allo stormire delle foglie. Quando invece la luna piena illuminava la valle di luce riflessa, quasi a giorno, i lupi urlavano di disperazione, perché la ciotola veniva riempita da Caino di zuppe maleodoranti e rafferme e loro sognavano l'odore del sangue caldo ma ai lupi era precluso il ritorno alla montagna: i loro compagni li trattavano da traditori e come tali li denunciavano le forme rotonde e il pelo liscio e lucido, oltre al segno sul collo.
Le figlie di Caino avevano un debole per i lupi, li carezzavano e li coccolavano, portavano loro di nascosto pane caldo e fumante e qualche volta rubavano nella casa dello zio Abele e alla mensa delle cugine qualche pezzo di arrosto. Dopo li legavano al guinzaglio e li portavano a passeggio.
Uno dei figli di Bogondir era esasperato e voleva che la smettessero di trattarli come pupazzi di pezza: era insofferente infatti alle loro moine e che loro non scorgessero in lui lo sguardo nobile e fiero de' suoi selvaggi antenati. Un giorno strinse le fauci sul collo di una di loro e ne frantumò l'osso. Caino lo uccise a bastonate e lo gettò nel campo, così il branco imparò e ricordò.
Capitò che Caino stesse seduto su di un pozzo volgendo le spalle al sole al tramonto e seguendo la propria ombra che si allungava verso i confini della terre e puntava all'orizzonte verso le montagne nere. Caino immaginò che sarebbe stato bello estendere la proprietà fino all'orizzonte, ma allora avrebbe avuto bisogno di una aiuto per tenere lontane le bestie selvatiche. Fu allora che pensò di fare un patto con i lupi: lui li avrebbe sfamati e loro avrebbero sorvegliato i suoi confini. Come suo fratello allevava agnelli, lui avrebbe allevato, appunto, lupi.
Piacque la sua proposta a Bogondir e alla sua banda, un branco di lupi reietti. Lui mise al loro collo una catena e davanti alla cuccia una ciotola e loro impararono il terrore delle notti senza luna quando abbaiavano allo stormire delle foglie. Quando invece la luna piena illuminava la valle di luce riflessa, quasi a giorno, i lupi urlavano di disperazione, perché la ciotola veniva riempita da Caino di zuppe maleodoranti e rafferme e loro sognavano l'odore del sangue caldo ma ai lupi era precluso il ritorno alla montagna: i loro compagni li trattavano da traditori e come tali li denunciavano le forme rotonde e il pelo liscio e lucido, oltre al segno sul collo.
Le figlie di Caino avevano un debole per i lupi, li carezzavano e li coccolavano, portavano loro di nascosto pane caldo e fumante e qualche volta rubavano nella casa dello zio Abele e alla mensa delle cugine qualche pezzo di arrosto. Dopo li legavano al guinzaglio e li portavano a passeggio.
Uno dei figli di Bogondir era esasperato e voleva che la smettessero di trattarli come pupazzi di pezza: era insofferente infatti alle loro moine e che loro non scorgessero in lui lo sguardo nobile e fiero de' suoi selvaggi antenati. Un giorno strinse le fauci sul collo di una di loro e ne frantumò l'osso. Caino lo uccise a bastonate e lo gettò nel campo, così il branco imparò e ricordò.
Ogni giorno Caino si domandava se avesse
mancato in qualcosa, se avesse toccato qualcosa di impuro, se avesse
mangiato un frutto proibito. Aveva bisogno di un riscontro
dall'Onnipotente.
Decise quindi di offrire un sacrificio
e chiamò Abele.
Un mattino accesero il fuoco e misero a
bruciare le offerte: Caino raccolse le verdure che non erano più
commestibili e le mise sulla legna che bruciava. Abele vi distese un
agnello bianco, grosso modo di un anno.
Il profumo delle verdure che
arrostivano si mescolò a quello della lana e della carne
dell'agnello, all'odore del sangue che gli colava dalla gola aperta.
Il fumo saliva verso il cielo senza nubi, verso il sole incandescente.
Il fumo delle verdure di Caino era nero e il vento lo faceva turbinare e lo spingeva a terra e verso nord. Il fumo dell'agnello di Abele era bianco e saliva dritto verso il sole.
Caino comprese che l'Anziano dei giorni non gradiva la sua offerta, mentre gradiva quella di Abele. Allora il suo volto si fece duro come pietra e fissò il fratello attraverso le strette feritoie degli occhi. Abele era spensierato come al solito, aveva in mano lo zuffolo e spandeva un suono allegro verso la vallata. Guardava tranquillo l'agnello che si consumava sul fuoco e il fumo che si alzava e si perdeva nel cielo.
Caino alzò il braccio e uccise il fratello, poi fece rotolare il corpo tra le nere zolle sollevate dall'aratro e se ne andò a casa sua.
Quando l'Onnipotente gli domandò di Abele, Caino scosse le spalle: "sono forse io il guardiano di mio fratello?" rispose. Misurò allora la collera di Colui che sa tutto e non interroga alcuno per sapere.
Colpito dalla maledizione interrogò gli astri e i libri antichi, meditò a lungo nel suo cuore vagando di terra in terra e progettò di costruire una città-fortezza, dove vivere sicuro e completare con metodo e costanza il proprio progetto, lontano da insidie e invidie. Progettò una città invincibile e ritenne che avrebbe dovuto santificarla ponendo sotto le pietre delle fondamenta un sacrificio tale che l'Onnipotente non potesse ignorarlo. Avrebbe ucciso e sacrificato e seppellito sotto le mura della sua città il proprio primogenito, si ripromise Caino.
Era forte quasi quanto lui, era l'orgoglio della famiglia. Ma era anche un concorrente pericoloso e là, sotto le grandi pietre, avrebbe potuto svolgere due impagabili servizi.
Così ragionava Caino.
Il fumo delle verdure di Caino era nero e il vento lo faceva turbinare e lo spingeva a terra e verso nord. Il fumo dell'agnello di Abele era bianco e saliva dritto verso il sole.
Caino comprese che l'Anziano dei giorni non gradiva la sua offerta, mentre gradiva quella di Abele. Allora il suo volto si fece duro come pietra e fissò il fratello attraverso le strette feritoie degli occhi. Abele era spensierato come al solito, aveva in mano lo zuffolo e spandeva un suono allegro verso la vallata. Guardava tranquillo l'agnello che si consumava sul fuoco e il fumo che si alzava e si perdeva nel cielo.
Caino alzò il braccio e uccise il fratello, poi fece rotolare il corpo tra le nere zolle sollevate dall'aratro e se ne andò a casa sua.
Quando l'Onnipotente gli domandò di Abele, Caino scosse le spalle: "sono forse io il guardiano di mio fratello?" rispose. Misurò allora la collera di Colui che sa tutto e non interroga alcuno per sapere.
Colpito dalla maledizione interrogò gli astri e i libri antichi, meditò a lungo nel suo cuore vagando di terra in terra e progettò di costruire una città-fortezza, dove vivere sicuro e completare con metodo e costanza il proprio progetto, lontano da insidie e invidie. Progettò una città invincibile e ritenne che avrebbe dovuto santificarla ponendo sotto le pietre delle fondamenta un sacrificio tale che l'Onnipotente non potesse ignorarlo. Avrebbe ucciso e sacrificato e seppellito sotto le mura della sua città il proprio primogenito, si ripromise Caino.
Era forte quasi quanto lui, era l'orgoglio della famiglia. Ma era anche un concorrente pericoloso e là, sotto le grandi pietre, avrebbe potuto svolgere due impagabili servizi.
Così ragionava Caino.
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