mercoledì 26 giugno 2013

Vedi che ti ho trovato

Insistettero perchè si fermasse almeno a mangiare e volevano che restasse anche a dormire, ma non ci fu verso. Alberto aveva bisogno di aria, di cielo, di quelle stelle che da tanti anni non vedeva più.
Potevano fare qualcosa per lui? «Si, mi servirebbe un coltello da cucina.» Lo guardarono interrogativi, poi gli fecero scegliere quello che preferiva.



Per dormire Alberto andò verso il convento dei frati cappuccini, perchè pensava a Martina e se la sentiva più vicina. La pensava da qualche parte sui monti umbri, nel silenzio del bosco, nel silenzio di una cella, in compagnia con le suore che cantavano l'ufficio.
Il convento dei cappuccini non era più come lo ricordava: il piazzale era stato chiuso con una recinzione per impedire l'accesso al portico da sempre rifugio per barboni e senza tetto: evidentemente i frati avevano deciso di negare quella ospitalità.
Alberto si diresse ai vicini giardini, scavalcò la recinzione e si sistemò su una panchina. La notte era piena di stelle e di insetti, di profumi e voci che sussurravano nel vento. Passò veloce e il sole fece capolino portando una folata di caldo.

Il tribunale era poco distante. Vi si avvicinò circospetto e si appostò in modo da vedere l'entrata. Erano quasi le otto e iniziavano ad arrivare gli impiegati e qualche giovane avvocato, probabilmente praticante sfruttato in qualche studio affermato, con grosse borse vuote che avrebbero dovuto riempirsi di lì a poco, che camminava veloce con la testa a terra.
Riconobbe il pubblico ministero che aveva sostenuto l'accusa contro di lui, lo riconobbe mentre scendeva dall'autobus e ne rivide lo sguardo soddisfatto mentre ascoltava la sentenza di condanna.  Gli andò incontro con la mano destra infilata sotto la maglietta a stringere il coltello infilato sotto i pantaloni.
Quando furono ad un paio di metri i loro sguardi si incrociarono: probabilmente non lo riconobbe perchè la sua unica reazione fu di deviare un poco la sua traiettoria per non scontrarsi e passargli sul fianco destro. Quando furono allineati spalla a spalla Alberto estrasse il coltello e glielo piantò diritto nella pancia.
Un fiume di sangue si riversò sul marciapiede, la gente si mise ad urlare mentre il magistrato si piegava in due lasciando cadere la borsa e stringendo le mani sul coltello. Alberto lo estrasse e menò un fendente rapidissimo sulla gola che tranciò di netto la trachea. L'avvocato cadde all'indietro con gli occhi sbarrati al cielo.
Alberto si fermò a guardarlo per un poco, con le mani che grondavano di sangue mentre la gente si accalcava e urlava e chiamava la polizia e l'ambulanza. Si decise infine a voltarsi e ad avviarsi verso il corso. Vide di lontano due vigilantes con il mitra spianato che correvano verso di lui e andò loro incontro mostrando il coltello e porgendo le mani per le manette. Ma quelli si avvicinarono urlando di fare strada, quindi lo sorpassarono e giunsero al cadavere.
Lui si voltò e li seguì con lo sguardo sorpreso, quindi riprese il suo cammino fino ad un bar dove chiese se poteva usare il bagno. Si lavò, pulì il coltello, uscì e chiese un caffè. Mentre beveva tranquillo, con lo sguardo del magistrato fisso negli occhi e il suo rantolo nelle orecchie, un poliziotto entrò e gli disse che rimanesse a disposizione. Poi gli chiese dove era domiciliato. Alberto ci pensò su qualche secondo, poi diede l'indirizzo dei genitori di Martina.
Il poliziotto uscì, lui finì il caffè e lo seguì.
Quando arrivò a casa di Martina e fu davanti a sua madre, le raccontò di aver ucciso il magistrato che aveva fatto carriera sulla sua pelle. Si sedettero e il padre versò tre bicchierini di rosolio dicendo «Era un uomo, però. Come te e come me. Chissà, forse aveva anche una famiglia, dei figli. Forse anche lui faceva fatica ad arrivare a fine mese.»
Alberto non rispose, così rimasero tutti in silenzio. Poi chiese di poter riposare e gli indicarono una stanza con un letto e lenzuola fresche e pulite.
Nel pomeriggio lo svegliarono perchè dei carabinieri lo cercavano. Gli consegnarono un atto giudiziario con il quale un giudice per le indagini preliminari lo convocava per essere sentito in merito all'omicidio del magistrato in qualità di sospetto. L'indomani mattina.
Quella sera parlarono poco.

La stanza del tribunale dove il magistrato lo aspettava era grande come quella di cinque anni prima. Anche questa volta il magistrato era una donna, ma più in carne, più giovane e più in salute di quella.
Gli elencò i suoi diritti e insistette perchè nominasse un avvocato ma Alberto non aveva soldi in quel momento come non li aveva avuti cinque anni prima. Il magistrato commentò che non è una vera giustizia quella nella quale la possibilità di difendersi dipende dalle risorse economiche.
Poi gli chiese se avesse ucciso lui il magistrato il giorno prima. Alberto non rispose e la guardò perplesso. La vide scrivere: «L'imputato si dichiara innocente.»
Gli disse che alcuni agenti lo avevano visto allontanarsi dal luogo del delitto con un coltello e le mani insanguinate. Lui chiese chi era che affermava questo. Il magistrato fece due nomi a lui sconosciuti.
Come in un guizzo di divertimento e di genio gli passò per la testa una frottola: «Quelli? Oh, adesso ho capito. Ma si figuri che quelli è da anni che ce l'hanno con me se proprio lo vuole sapere...»
«Si, lo voglio sapere, mi dica» lo invitò il magistrato scrivendo senza guardarlo negli occhi. Poi riprese perchè Alberto restava in silenzio: «È sicuro di quel che dice, vero? Perchè agenti che mentono per motivi personali vengono licenziati in tronco e interdetti a vita dai pubblici uffici.»
«Certo che sono sicuro ... » riprese Alberto mentre seguiva il corso dei suoi ragionamenti: "Quelli ce l'hanno con me perchè li ho beccati che molestavano una ragazza" avrebbe detto e si immaginava la reazione del magistrato e che lui non avrebbe più potuto ritrattare e loro che avrebbero passato quello che aveva passato lui.
La donna alzò gli occhi e lo fissò spingendolo a continuare.
«No, mi scusi, è vero, hanno detto la verità. Sono stato io ad uccidere il magistrato.»
«È sicuro di quel che dice? Non deve aver timore, nel nostro ordinamento c'è sempre e comunque la presunzione di innocenza.»
«Guardi avvocato, lei è una bella donna ed è raro trovare belle donne nel suo mestiere, ed è anche raro trovare esseri umani. La ringrazio ma non potrei in alcun modo guardarmi in faccia la mattina sapendo di aver rovinato la vita a due persone che hanno fatto il loro dovere. Mi creda, sono stato io.»
«Ma perchè l'ha ucciso? C'è un movente?»
«È stato il pubblico ministero nel processo nel quale mi hanno condannato a cinque anni di carcere» sbottò Alberto.
«Quindi in lei covava un sordo risentimento, un senso di giustizia violata!» commentò la donna. «Questo potrà essere valutato come attenuante. Ha altro da dichiarare? No? Bene, allora può firmare qui e può andare. Ma si tenga a disposizione.»
Alberto la guardò sorpreso: «Non mi arresta?»
«Ma signor Innocente! il nostro è un ordinamento civile, nessuno può essere considerato o trattato da colpevole prima della condanna definitiva, ci mancherebbe altro.»
«Ma potrei scappare!» insinuò lui.
«Io penso che lei non scapperà, perchè se lo avesse voluto fare non si sarebbe presentato qui oggi. E per quel che riguarda l'inquinamento delle prove, che sarebbe il secondo motivo per la carcerazione preventiva, lei ha confessato quindi non ci sono più prove da inquinare.» A quel punto si alzò, gli strinse la mano e lo invitò con gli occhi ad uscire.

Quella sera, mentre mangiava in silenzio con i genitori di Martina, disse che avrebbe avuto piacere a rivederla, a rivedere Martina. La madre lo abbracciò commossa.

Il parlatorio del convento di clausura era fresco, pulito e quieto, in atroce contrasto con il treno e gli autobus e le strade che aveva dovuto percorrere per arrivarvi.
Martina comparve all'improvviso oltre le sbarre: l'abito la copriva tutta lasciando scoperto solo il viso e le mani e un ciuffo di capelli neri ribelli o sbarazzini che facevano capolino dalla cuffia. Il volto era segnato da rughe precoci. Alberto si trovò a fare un paragone improvviso e forse sconveniente con Maria: quando l'Angelo le aveva portato l'annuncio era una ragazza non ancora ventenne ma ai piedi della croce era già una anziana cinquantenne dai cui occhi, forse, traspariva la stessa disperata bellezza di Martina: le ciglia senza trucco, le labbra senza rossetto, il volto segnato da un dolore di una bellezza impossibile.
Martina sporse le dita dalla grata e volle toccare la sua mano: "non ha dimenticato il bisogno del contatto fisico" pensò Alberto.
«Ho sentito del delitto di ieri, mi ha telefonato mia madre» iniziò Martina socchiudendo gli occhi come per resistere meglio ad un dolore prepotente. «Ecco un altro male venuto dal mio errore» proseguì. «Non sai quanto mi dispiace, se avessi potuto fermarti offrendoti la mia vita, se avessi potuto fare qualunque cosa!»
Alberto la guardava e rivedeva il sangue che sprizzava dappertutto e le sue mani sporche e lo sguardo vuoto rivolto al cielo vuoto.
Dopo un lungo silenzio riempito dal cinguettio degli uccelli nascosti nel verde che circondava il convento. Alberto riprese: «Devo anch'io chiederti scusa, eri una bambina, quasi dell'età di mia figlia, non avrei dovuto lasciarmi andare.»
Martina confermò quello che già la madre aveva detto ad Alberto: «Non ti devi dispiacere, non devi incolpartene. Le persone immature fanno discorsi immaturi, usano parole immature. Io allora ero immatura e le parole che usavo erano immature. Avevo bisogno del fisico, avevo bisogno di sesso per sentirmi amata. E quella notte avevo un disperato bisogno di qualcuno che mi dicesse che non ero spazzatura, che non ero un rifiuto da gettare via, qualcuno che mi dicesse che mi amava e che io valevo ancora qualcosa.»
«Adesso sei matura?»  scherzò Alberto.
«In questo mondo nessuno è mai ne sarà mai maturo. Se in qualche modo non diciamo l'amore, è come se non ci fosse. Ma in qualunque modo lo diciamo, è sempre un modo incompleto, infantile, inadeguato.»
Alberto si rese conto di quale abisso stava sfiorando e rimase in silenzio ancora. Poi riprese: «Non ho più rivisto mia moglie» disse, intendendo che aveva mancato anche nei confronti della donna con cui era sposato e a cui aveva giurato fedeltà.
«Ero andata a trovarla qualche giorno dopo il tuo arresto, per assicurarla che non eri un mostro come tutti ti descrivevano, che non mi avevi violentata. Mi ascoltò con gli occhi duri e non so ancora se per lei fu peggio sapere che ti avevo desiderato e amato piuttosto che tu mi avessi posseduta con la forza.»
«Era una donna disperata» riprese Alberto «consumata da una vita senza prospettive, giorni e giorni di lavoro senza fine, senza vacanza, senza uscita. Si era lasciata andare come le cozze attaccate sulla roccia con la forza della disperazione.»
«Perchè c'è qualcosa di peggio che esprimere male l'amore» sussurrò Martina «ed è giudicare dell'amore altrui. Così lei ha giudicato te e condannato se stessa.»

 Sulla strada che scende dal convento cantano gli uccelli e il vento accarezza il viandante, gli culla il cuore al ritmo delle fronde di alberi lieti.
Lassù c'è chi ti accompagna, Alberto, per strade di libertà, laddove il perdono è il prezzo del perdono e ad ogni bivio un sussurro suggerisce il sogno migliore.

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