domenica 27 gennaio 2013

Agostino nella polvere



Il sergente dei Marines Dwayne Miller è in Afghanistan da quasi un anno e comanda una squadra di dieci uomini nella provincia di Helmand, distretto Nawa-i-Barack Zayi.
Si è arruolato da quattro anni dopo aver sentito parlare un reclutatore nel cortile del fast food dove lavorava, stanco della vita che faceva, delle amicizie, della famiglia. Con una grande rabbia dentro, perché la sera prima sua madre era finita ancora una volta in ospedale picchiata dall’ultimo dei suoi boy friends. Sembrava che Christine, sua madre, avesse uno speciale sensore per attaccarsi agli uomini sbagliati. Venti anni prima si era attaccata al padre di Dwayne, che l’aveva lasciata prima ancora che lui nascesse e che non aveva mai conosciuto. Poi uno dopo l’altro, fuori uno dentro l’altro come  al Luna Park.
Si stabilivano a casa sua e quando se ne andavano lasciando il segno. Perché o picchiavano lei o picchiavano Dwayne, ma sembrava che non potessero andarsene senza muovere le mani, senza scaricare in qualche modo la rabbia che si trovavano dentro per qualche a lui ignota ragione.
Era cresciuto in quella giostra di uomini e litigi, era andato a scuola controvoglia e con scarsi risultati, si era trovato un lavoro qualunque a sedici anni che era durato poco. Poi un altro e un altro ancora, fino a quella sera. L’ufficiale reclutatore che parlava dei marines gli fece sognare un altro mondo, un mondo dove la vita ha un significato e un ordine.
L’unica cosa che piace davvero a Dwayne è il rap, il ritmo incalzante, oppressivo, violento con cui le parole si attorcigliano alla musica per cercare di dare un senso al mondo. E poi l’erba, va bene, o la cocaina o qualsiasi cosa che si possa sniffare o fumare o iniettare e che per qualche momento ti tiri fuori dal mondo.
Dopo l’arruolamento i mesi di addestramento furono quasi un divertimento. Il ritmo del campo era studiato per far saltare i nervi, per metterti sotto pressione, ma per lui era solo una occasione per buttare fuori la rabbia e quanto più gli mettevano ostacoli davanti, tanto più lui si sentiva bene perché riusciva a buttarli giù tutti.
Dopo qualche mese si accorse all’improvviso che non aveva più fumato nulla. A dir la verità ogni volta che rubava alla madre i soldi per la roba si sentiva un verme e pensava che tutti quelli che si facevano erano uomini da poco. Li avrebbe presi tutti a sprangate, avrebbe preso anche se stesso a sprangate, perché è ignobile farsi e guardare con gli occhi ebeti la gente che tradisci e imbrogli anziché aiutare, la gente che già da sola ha troppi problemi per occuparsi anche dei tuoi.
Quando l’arruolatore aveva arringato i giovani nel cortile del fast food, li aveva spronati a vendicare i morti delle torri gemelle. Ma a lui delle mezze maniche morte di New York non importava  nulla: tutti parassiti che vivevano sul lavoro della povera gente come sua madre. No, non si era arruolato per vendicare loro, ma per respirare, perché il mondo che aveva attorno lo opprimeva mentre lui aveva bisogno di orizzonti grandi, infiniti. Aveva bisogno di scaricare la rabbia.
La rabbia che lui scaricava gli addestratori la scambiarono per disciplina e fece rapidamente carriera trovandosi sergente nel Pashtunistan, la terra dei Pashtun. Gente fiera che gli sembrava, talvolta, fosse piena di rabbia più di lui, prigionieri di una rabbia ancestrale che li obbliga ad una spirale di odio che non finirà mai. Ma forse lo credeva lui, perché in ogni caso non si parlavano o perlomeno non parlavano delle cose che contano. Quei pochi che parlavano l’inglese se ne servivano solo per servizio, per quella missione di controllo del territorio e di guerra ai fantasmi dei talebani.
Lungo le strade polverose e sconnesse, a fianco ai campi di mais, Dwayne aveva scoperto le sterminate coltivazioni di oppio. Dal primo sguardo come una illuminazione improvvisa gli fece capire che la sua vita dipendeva da una scelta istantanea e radicale. Se appena avesse aperto uno spiraglio non sarebbe mai più riuscito a chiuderlo.
Con una rigidità che solo gli ex dipendenti mostrano, non tollerò  che circolasse roba nel suo gruppo o in sua presenza. Non perdeva l’occasione di dare fuoco alle coltivazioni mature per il raccolto o ai raccolti ammassati al bordo delle strade.
Non erano ordini superiori, nessuno diceva nulla, nessuno si opponeva e nessuno lo incoraggiava, era la sua battaglia personale: il solo fatto che nessuno dicesse nulla, che i suoi superiori non chiedessero conto, era per Dwayne una conferma e un incoraggiamento. In un anno la sua squadra era diventata famosa: lo capiva da come la gente li guardava quando entravano nei villaggi. Faceva ballare il mitra a tracolla con la spavalderia dei vent’anni orgoglioso della divisa e della libertà yankee.
Il 14 novembre lasciarono la camionetta fuori da un villaggio in un giorno di mercato e si mescolarono alla folla tra animali e spezie e tessuti. La gente correva indaffarata avanti e indietro in una confusione che è il loro modo naturale di vivere. Scherzava con i suoi soldati guardando l’orizzonte e scrutando gli edifici attorno alla piazza e fu proprio l’abitudine di essere sempre in allarme che probabilmente lo salvò dalla prima raffica. In un attimo fu l’inferno, quattro marines erano a terra feriti, e forse una decina di afgani, tra cui bambini e donne, mentre tutti gli altri correvano attorno come mosche impazzite.
Il primo pensiero di Dwayne fu per i propri feriti: con ordini secchi e precisi mise la squadra in grado di reagire e portarono i feriti al sicuro. La gente continuava a correre per la piazza, in un inferno di urla, polvere, confusione. Se si fossero tolti di mezzo sarebbe stato il miglior aiuto che potevano dare, Dwayne armò il mitra e fissò l’edificio da dove venivano gli spari. I suoi soldati in una frazione di secondo erano divenuti operativi e lo guardavano in attesa di istruzioni.
Sentiva la rabbia salirgli dentro, per i suoi soldati ma anche per gli altri innocenti che giacevano per terra nel sangue e nella polvere. La vendetta gli urlava dentro e gli martellava le tempie.
Alzò la mano e la tenne sospesa. Rispondere al fuoco in quelle condizioni avrebbe provocato una strage. Ancora centinaia di persone correvano per la piazza, come se avessero perso l’orientamento o non capissero da che parte arrivavano gli spari, alcuni gridavano disperati attorno ai caduti e non capivano o non si curavano che restando accanto ai loro morti rischiavano anche la propria vita.
Ogni singolo muscolo di Dwayne era teso fino allo spasimo, mentre calcolava freneticamente ogni possibile azione.
Ci vuole coraggio per combattere e ci vuole coraggio per non combattere. Io sono un Marine, si ripeteva ossessivamente Dwayne: devo fare onore alla mia divisa, non posso lasciarmi trascinare dall’emozione, devo calcolare le conseguenze delle mie azioni e prendermene la responsabilità. Red e Walter sono stesi nel proprio sangue, se i soccorsi arriveranno presto forse ce la faranno, se avesse quei vigliacchi dei cecchini sotto le mani li farebbe a pezzi. Ma tra di loro c’è una folla presa dal panico e un Marine è un assassino, ma un assassino legale, un assassino con delle regole, non spara a caso, un Marine identifica il proprio bersaglio e lo abbatte, non spara mai nel mucchio.
Ci volle qualche minuto perché la piazza forse sgombra, pochi minuti ma abbastanza perché i cecchini si dileguassero. Quando Dwayne e i suoi giunsero all’edificio da cui avevano sparato, trovarono solo i bossoli.
La notte, seduto con i suoi amici sulle sedie pieghevoli che qualche parente pazzo gli ha spedito in occasione della festa del Ringraziamento, Dwayne guarda le stelle e le pesa. Sono tutte diverse, non c’è una stella uguale all’altra. Un astronomo le sa riconoscere. Un soldato deve saper riconoscere i nemici e distinguerli dagli innocenti.

NB: il nome del sergente Dwayne Miller è inventato. I fatti sono realmente avvenuti: Augustine in the Dust, David Alexander, First Things Gennaio  2013, pg 19-20

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