Il sergente dei Marines Dwayne Miller è in Afghanistan da
quasi un anno e comanda una squadra di dieci uomini nella provincia di Helmand,
distretto Nawa-i-Barack Zayi.
Si è arruolato da quattro anni dopo aver sentito parlare un
reclutatore nel cortile del fast food dove lavorava, stanco della vita che
faceva, delle amicizie, della famiglia. Con una grande rabbia dentro, perché la
sera prima sua madre era finita ancora una volta in ospedale picchiata dall’ultimo
dei suoi boy friends. Sembrava che Christine, sua madre, avesse uno speciale
sensore per attaccarsi agli uomini sbagliati. Venti anni prima si era attaccata
al padre di Dwayne, che l’aveva lasciata prima ancora che lui nascesse e che
non aveva mai conosciuto. Poi uno dopo l’altro, fuori uno dentro l’altro come al Luna Park.
Si stabilivano a casa sua e quando se ne andavano lasciando
il segno. Perché o picchiavano lei o picchiavano Dwayne, ma sembrava che non
potessero andarsene senza muovere le mani, senza scaricare in qualche modo la
rabbia che si trovavano dentro per qualche a lui ignota ragione.
Era cresciuto in quella giostra di uomini e litigi, era
andato a scuola controvoglia e con scarsi risultati, si era trovato un lavoro
qualunque a sedici anni che era durato poco. Poi un altro e un altro ancora,
fino a quella sera. L’ufficiale reclutatore che parlava dei marines gli fece
sognare un altro mondo, un mondo dove la vita ha un significato e un ordine.
L’unica cosa che piace davvero a Dwayne è il rap, il ritmo
incalzante, oppressivo, violento con cui le parole si attorcigliano alla musica
per cercare di dare un senso al mondo. E poi l’erba, va bene, o la cocaina o
qualsiasi cosa che si possa sniffare o fumare o iniettare e che per qualche
momento ti tiri fuori dal mondo.
Dopo l’arruolamento i mesi di addestramento furono quasi un
divertimento. Il ritmo del campo era studiato per far saltare i nervi, per
metterti sotto pressione, ma per lui era solo una occasione per buttare fuori
la rabbia e quanto più gli mettevano ostacoli davanti, tanto più lui si sentiva
bene perché riusciva a buttarli giù tutti.
Dopo qualche mese si accorse all’improvviso che non aveva
più fumato nulla. A dir la verità ogni volta che rubava alla madre i soldi per
la roba si sentiva un verme e pensava che tutti quelli che si facevano erano
uomini da poco. Li avrebbe presi tutti a sprangate, avrebbe preso anche se
stesso a sprangate, perché è ignobile farsi e guardare con gli occhi ebeti la
gente che tradisci e imbrogli anziché aiutare, la gente che già da sola ha
troppi problemi per occuparsi anche dei tuoi.
Quando l’arruolatore aveva arringato i giovani nel cortile
del fast food, li aveva spronati a vendicare i morti delle torri gemelle. Ma a
lui delle mezze maniche morte di New York non importava nulla: tutti parassiti che vivevano sul lavoro
della povera gente come sua madre. No, non si era arruolato per vendicare loro,
ma per respirare, perché il mondo che aveva attorno lo opprimeva mentre lui
aveva bisogno di orizzonti grandi, infiniti. Aveva bisogno di scaricare la
rabbia.
La rabbia che lui scaricava gli addestratori la scambiarono
per disciplina e fece rapidamente carriera trovandosi sergente nel
Pashtunistan, la terra dei Pashtun. Gente fiera che gli sembrava, talvolta,
fosse piena di rabbia più di lui, prigionieri di una rabbia ancestrale che li
obbliga ad una spirale di odio che non finirà mai. Ma forse lo credeva lui, perché
in ogni caso non si parlavano o perlomeno non parlavano delle cose che contano.
Quei pochi che parlavano l’inglese se ne servivano solo per servizio, per
quella missione di controllo del territorio e di guerra ai fantasmi dei
talebani.
Lungo le strade polverose e sconnesse, a fianco ai campi di
mais, Dwayne aveva scoperto le sterminate coltivazioni di oppio. Dal primo
sguardo come una illuminazione improvvisa gli fece capire che la sua vita
dipendeva da una scelta istantanea e radicale. Se appena avesse aperto uno
spiraglio non sarebbe mai più riuscito a chiuderlo.
Con una rigidità che solo gli ex dipendenti mostrano, non
tollerò che circolasse roba nel suo
gruppo o in sua presenza. Non perdeva l’occasione di dare fuoco alle
coltivazioni mature per il raccolto o ai raccolti ammassati al bordo delle strade.
Non erano ordini superiori, nessuno diceva nulla, nessuno si
opponeva e nessuno lo incoraggiava, era la sua battaglia personale: il solo
fatto che nessuno dicesse nulla, che i suoi superiori non chiedessero conto,
era per Dwayne una conferma e un incoraggiamento. In un anno la sua squadra era
diventata famosa: lo capiva da come la gente li guardava quando entravano nei
villaggi. Faceva ballare il mitra a tracolla con la spavalderia dei vent’anni
orgoglioso della divisa e della libertà yankee.
Il 14 novembre lasciarono la camionetta fuori da un
villaggio in un giorno di mercato e si mescolarono alla folla tra animali e
spezie e tessuti. La gente correva indaffarata avanti e indietro in una
confusione che è il loro modo naturale di vivere. Scherzava con i suoi soldati
guardando l’orizzonte e scrutando gli edifici attorno alla piazza e fu proprio
l’abitudine di essere sempre in allarme che probabilmente lo salvò dalla prima
raffica. In un attimo fu l’inferno, quattro marines erano a terra feriti, e
forse una decina di afgani, tra cui bambini e donne, mentre tutti gli altri
correvano attorno come mosche impazzite.
Il primo pensiero di Dwayne fu per i propri feriti: con
ordini secchi e precisi mise la squadra in grado di reagire e portarono i
feriti al sicuro. La gente continuava a correre per la piazza, in un inferno di
urla, polvere, confusione. Se si fossero tolti di mezzo sarebbe stato il
miglior aiuto che potevano dare, Dwayne armò il mitra e fissò l’edificio da
dove venivano gli spari. I suoi soldati in una frazione di secondo erano
divenuti operativi e lo guardavano in attesa di istruzioni.
Sentiva la rabbia salirgli dentro, per i suoi soldati ma
anche per gli altri innocenti che giacevano per terra nel sangue e nella
polvere. La vendetta gli urlava dentro e gli martellava le tempie.
Alzò la mano e la tenne sospesa. Rispondere al fuoco in
quelle condizioni avrebbe provocato una strage. Ancora centinaia di persone
correvano per la piazza, come se avessero perso l’orientamento o non capissero
da che parte arrivavano gli spari, alcuni gridavano disperati attorno ai caduti
e non capivano o non si curavano che restando accanto ai loro morti rischiavano
anche la propria vita.
Ogni singolo muscolo di Dwayne era teso fino allo spasimo,
mentre calcolava freneticamente ogni possibile azione.
Ci vuole coraggio per combattere e ci vuole coraggio per non
combattere. Io sono un Marine, si ripeteva ossessivamente Dwayne: devo fare
onore alla mia divisa, non posso lasciarmi trascinare dall’emozione, devo
calcolare le conseguenze delle mie azioni e prendermene la responsabilità. Red
e Walter sono stesi nel proprio sangue, se i soccorsi arriveranno presto forse
ce la faranno, se avesse quei vigliacchi dei cecchini sotto le mani li farebbe
a pezzi. Ma tra di loro c’è una folla presa dal panico e un Marine è un
assassino, ma un assassino legale, un assassino con delle regole, non spara a
caso, un Marine identifica il proprio bersaglio e lo abbatte, non spara mai nel
mucchio.
Ci volle qualche minuto perché la piazza forse sgombra,
pochi minuti ma abbastanza perché i cecchini si dileguassero. Quando Dwayne e i
suoi giunsero all’edificio da cui avevano sparato, trovarono solo i bossoli.
La notte, seduto con i suoi amici sulle sedie pieghevoli che
qualche parente pazzo gli ha spedito in occasione della festa del
Ringraziamento, Dwayne guarda le stelle e le pesa. Sono tutte diverse, non c’è
una stella uguale all’altra. Un astronomo le sa riconoscere. Un soldato deve
saper riconoscere i nemici e distinguerli dagli innocenti.
NB: il nome del sergente Dwayne Miller è inventato. I fatti sono realmente avvenuti: Augustine in the Dust, David Alexander, First Things Gennaio 2013, pg 19-20
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