venerdì 26 giugno 2015

Ipocrisia clericale

In attesa del giubileo della Misericordia e del sinodo sulla famiglia con la revisione della prassi nei confronti di separati-divorziati-risposati, l'unica definizione che mi sfiora per quel che riguarda il comportamento dei preti è: ipocriti!
Qualsivoglia atteggiamento nei confronti della famiglia (ma direi in assoluto perlomeno nel nostro universo) non può prescindere da tre cose: la legge, il giudice, la sentenza.

Per quel che riguarda la famiglia, la pastorale clericale dopo aver gettato alle ortiche l'insegnamento di San Paolo, San Pietro e tutti i padri apostolici (ci mancasse che qualcuno li accusasse, i preti, di essere reazionari quando ricordano alle mogli che devono obbedire ai mariti!) ha pensato di riempire il vuoto con patetici appelli al buonismo e all'amore. Sentimenti e passioni molto nobili ma pressochè irrilevanti dal punto di vista di una qualunque legislazione che debba dare regole precise ad una qualche comunità umana.
In particolare quando si parla di una associazione il problema principale è stabilire come vengono prese le decisioni, perciò la legge stabilisce che i consigli di amministrazione debbano essere composti di un numero dispari di membri, o in alternativa che il voto del presidente valga doppio. Non potendosi nella coppia ricorrere alla prima soluzione è giocoforza optare per la seconda.
Ovviamente non è questo l'unico punto della complessa e grandiosa antropologia cattolica riguardo la famiglia ma serve per chiarire cosa hanno fatto i preti sbarazzandosene.

Data una legge si deve dare anche il coraggio di un giudice e di una sentenza.
Domandarsi come accogliere i fedeli che hanno un matrimonio fallito alle spalle è ipocrita quando non si ha il coraggio di scendere nel merito e di dire di chi è la colpa del fallimento. Certo: ci sono colpe più o meno emendabili, c'è la confessione e l'assoluzione. Ma non affrontare il merito è vigliaccheria.
È anche vero che il peggior incubo dei preti sono le chiese vuote, ma se questo incubo condiziona i loro comportamenti che si facciano un esame di coscienza.
Quando due litigano la colpa può essere più o meno condivisa. Ma è anche possibile dire che la colpa è più di uno che dell'altro, sempre che ci sia ovviamente una legge di riferimento, altrimenti nessun giudizio è possibile.
Ma mettiamo solo e soltanto la semplice regola che la moglie deve obbedire al marito: in quanti divorzi si può dimostrare senza ombra di dubbio che la moglie ha sempre obbedito al marito o perlomeno non ha mai rifiutato di farlo? O comunque, quanti processi di divorzio andrebbero avanti se una moglie si impegnasse da quel momento ad obbedire fedelmente al marito? Mah, forse una percentuale evanescente?!

Ora: quale giudizio dovrebbe emettere chi avesse il coraggio di ciò in cui crede?
Semplice: se uno dei due o anche tutti e due hanno comportamenti gravementi difformi dalla dottrina, uno o entrambi vanno scomunicati e il matrimonio annullato. Punto.
Ovviamente qui torna l'incubo di cui sopra (delle chiese vuote) e i preti si agitano sulle sedie.
Ma se un tribunale ecclesiastico dicesse: "la moglie che rifiuta obbedienza al marito infrange la dottrina cattolica e dimostra di non avere (o di non aver mai avuto) coscienza della natura del matrimonio, quindi lo stesso è nullo e lei scomunicata", abbiamo idea di quante migliaia di situazioni si chiarificherebbero? Di quante inutili sofferenze svanirebbero nel nulla?

Perciò ho l'impressione che oggi la chiesa, nel suo apparato burocratico intendo, abbia più bisogno di logica e coerenza che misericordia.
O che perlomeno non ci possa essere alcuna misericordia laddove non c'è un giudizio.

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