venerdì 22 febbraio 2013

Dichiarazioni Anticipate di Trattamento


Ho depositato le mie Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Sono tranquillo: non mi attaccheranno ad un respiratore per torturarmi all'infinito. Rimugino soddisfatto.
Mio nipote credo che mi abbia fatto interdire o si è fatto nominare mio tutore o che ne so. So per certo che ha messo gli occhi sui miei soldi. Sta di fatto che mi ha messo in casa una badante moldava, Irina, una ragazza giovane, avrà venti o trenta anni. Una bella ragazza, di quella bellezza energica, muscolare che le donne italiane non hanno più.
Mi prepara da mangiare. Talvolta mi accompagna al parco. Mi aiuta ad entrare in doccia. Le ho fatto capire che ho un bisogno tra le gambe ma lei si è risentita e ha girato la testa dall'altra parte. Cosa dovrei farmene di una donna in casa se non pensa a soddisfare quello? Da quando non uso più l'auto, non posso più caricarmi le bellezze che passeggiano sul Terraglio. Resta la televisione ma è ben poca cosa.

Ho cercato di cacciarla ma ogni volta che le dico di uscire da casa mia lei mi dice di fare il bravo che dopo ne parliamo con Augusto, che sarebbe il nipote appunto. Così mi rassegno ad un parassita che si è infiltrato a casa mia e che, probabilmente, pago con i miei soldi. Perchè io di soldi non ne tiro fuori ma è ben possibile che Augusto sia riuscito a mettere le mani sul mio conto corrente. In ogni caso io soldi a lei non ne do e se non riesco a cacciarla, per lo meno la ignoro.
Il cuore va sempre peggio, il respiro mi manca. La notte devo dormire con alcuni cuscini sotto la testa, quasi da seduto. La notte infatti è il momento peggiore, come questa notte di luna. Guardo fuori i campi illuminati quasi a giorno, con ampi spiazzi ancora coperti di neve, mentre attendo che venga il sonno. Ma il sonno non viene e l'aria se ne va, sempre di più. Mi accorgo che gorgoglio, che mi affanno. Lei piomba nella mia stanza spaventata. È la prima volta che mi vede così affannato e va in panico, chiama il 118 balbettando e attende l'ambulanza torcendosi le mani e chiamandomi: «zio, zio come sta? Come si sente? Respira? Stia tranquillo che va tutto bene, sa?» Ma dai, ma che bene e bene, lo so che deve venire la mia ora, che cosa vuoi che succeda d'altro? Ma lei non capisce, lei non è preparata, lei, no. È giovane e non sa cos'è la morte, anche se guardandola negli occhi smarriti ho il dubbio che l'abbia vista già troppe volte e per questo sia così terrorizzata.
Finalmente arriva l'ambulanza, non ne potevo più di sopportare la sua angoscia. Mi attaccano l'ossigeno, mi caricano in barella e mi portano via. Che spreco: se fossi riuscito a morire qualche minuto prima!
Ad ogni modo l'ossigeno fa la sua parte e comincio già a sentirmi meglio, le immagini si fanno nitide, il mondo torna al proprio posto. Basterebbe così, ma quel deficiente dell'infermiere preso da scrupolo professionale mi pianta un ago nella vena: una flebo non si nega a nessuno. Evvai: senza consenso né informato né scritto né alcunchè. Un ago, un po' di acqua, poi vedranno in ospedale quale benedizione aggiungere.
Com'è ammortizzata l'ambulanza e com'è veloce! In pochi istanti siamo al pronto soccorso: barella su, barella giù, con uno scatto le gambe della lettiga si raddrizzano e saltano fuori le ruote e vai. Ma perché parlano male della sanità italiana: a parte la burocrazia e i fogli che mi appoggiano sulla barella fingendo che li abbia letti, compresi, condivisi, approvati e firmati, a parte tutta quella montagna di documenti, tutto il resto fila via liscio come l'olio.
Eccomi in questa stanza bianca che sa di pulito, due letti, di là un altro vecchiotto, di qua io, due armadietti, un bagno di cui vedo la porta.
La notte negli ospedali non è fatta per dormire, è un pezzo del giorno, un pezzo un po' diverso dall'altro ma pur sempre orario lavorativo, chèssennò? Io respiro ossigeno e ho una flebo che butta qualcosa nella vena. Guardo la gente che passa, i medici, gli infermieri, i parenti dei degenti.
Non dormo, forse si, dormo, mi risveglio, mi riaddormento ancora.
La signorina moldava viene a visitarmi di mattina presto: che ora sarà? Forse le sei, massimo le sette. È tranquilla. Non voleva essere lei responsabile di quello che succedeva, non voleva essere sola nell'ora della mia morte. Va bene, la capisco, è giovane. O forse no, forse dovrei saperne di più di lei, di cosa ha vissuto, di cosa è per lei la morte. Perché si ha paura, certo, di ciò che non si conosce. Ma nei suoi occhi questa notte leggevo un terrore che va oltre la paura dell'ignoto. Era il terrore di rivedere un nemico già incontrato, un terrore portato da un ricordo sepolto in un passato che non riesce a dimenticare. Forse.
Io adesso sono qui. Sono ancora vivo. Ho stabilito per iscritto con atto notarile che non devono fare terapie straordinarie. Ma quale terapia è straordinaria? Questa maschera di ossigeno è straordinaria? E la flebo? Ma il punto è: ne vale la pena? Cosa mi danno in più con queste cure? C'è una sola cosa nuova che ancora mi attendo dalla vita ed è una cosa che le loro cure non mi danno ma mi tolgono o perlomeno allontanano.
Le infermiere passano per rifare i letti. Mi sbattono di qua e di là, fanno girare aria. Quando escono la stanza è bella, fresca, ordinata. Io avrei voluto farmi una doccia. Mi hanno passato una spugna bagnata da qualche parte. Mi manca la doccia. È una cosa a cui ho sempre tenuto: il gusto di sentirmi pulito, la freschezza della pelle asciugata. Dopo qualche giorno che non mi lavo l'ano comincia a prudermi, e poi via via tutto il corpo, e divento nervoso e mi agito di qua e di là. Il medico dice di aumentare l'ossigeno. Ma che ossigeno e ossigeno, frescone. Una doccia, una bella doccia, il mio regno per una doccia.
Le giornate passano lente e monotone, uguali le une alle altre. Ogni tanto viene mio nipote. Ogni tanto Irina sta qui qualche ora a guardarmi in silenzio, poi se ne va. Non muoio, non ancora. Chissà perché.
Non ho altri parenti né conoscenti al mondo. Mia moglie è morta anni fa. Figli non ne abbiamo mai voluti. Una volta lei era rimasta incinta: ne abbiamo parlato e lei ha interrotto. Per fortuna: i nostri lavori non ci concedevano lussi, non potevamo permetterci distrazioni.
Non vedo ragioni per andare avanti. In questa stanza semmai vedo ragioni per andarmene quanto prima. La flebo la odio. I bisogni sono una sofferenza. Schiaccio il campanello, arriva una infermiera, forse, altrimenti risuono. Mi mette sotto una padella e se ne va. Io, se riesco, faccio. Dopo un quarto d'ora, venti minuti lei torna e si riprende la padella. Mai che mi puliscano, non lo sopporto più. Se non fosse per la flebo, se non fosse per le sbarre che mi hanno messo alle ringhiere del letto, se non fosse per il respiro che manca al minimo movimento, andrei in bagno da solo tanta è la voglia di un po' d'acqua e sapone.
Ascolto tutto ciò che si dice attorno a me, per straviare la mente e ingannare l'orologio. Il vecchietto di fianco a me ha figli e nipoti e pronipoti: ognuno di quelli che arriva ha tanto di raccontare dell'altro e dell'altra che mi sono fatto una idea della sua tribù e di quello che succede alla nipote sposata di fresco e il nipotino che si è fatto male a scuola e la fidanzatina dell'altro che ha rimandato indietro i cioccolatini per San Valentino e via e via che ci sarebbe da scriverci un libro.
Io mi agito nel letto per il prurito della pelle, le lenzuola fresche al mattino, nel primo pomeriggio sono già intrise di sudore e fetore. Mi accorgo che la mia agitazione e insofferenza infastidisce tutti: i visitatori del vecchietto, gli infermieri, i medici, mio nipote. Tutti. Me ne stessi calmo, sembrano volermi dire tutti con gli occhi seri. Lavatemi, urlerei io, o perlomeno togliete queste sbarre, lasciatemi scendere dal letto, faccio da me. Ma non ho abbastanza fiato per urlare, e dalla maschera per l'ossigeno esce forse qualche brontolio a cui nessuno dà peso.
Basta, facciamola finita. Mi rifiuto di mangiare. Quelli mi pesano, prendono il polso, la pressione, cambiano flebo, e si va avanti.
Basta, voglio farla finita. Mi tolgo la maschera per l'ossigeno. Me la rimettono e mi legano la mano perché non me la tolga più. La mia agitazione cresce, quando viene Irina cerco di dirle che voglio una doccia. Lei mi guarda, annuisce, forse non capisce, se ne va. Con mio nipote ancora peggio: sì zio caro, ma certo zio, ma guarda che oggi ti vedo proprio bene sai?
Quanto dovrò ancora scontare per potermene andare? Mi viene in mente che, chissà, forse potrei discuterne con quel figlio che abbiamo abortito. Che mia moglie ha abortito un giorno, mentre io ero in volo diretto da qualche parte per lavoro, ma in qualche modo ho abortito anch'io perché è stata una scelta comune. Che idea assurda. Forse mia moglie, morta per un ictus dieci anni fa, potrebbe capirmi. Ma un figlio mai nato come e cosa potrebbe capire?
Dove trovare la forza per un altro giorno e un'altra notte che è un doppio giorno? La forza per fare cosa poi? Per non mettermi a bestemmiare, a urlare, a imprecare?
Tra le visite del vecchietto oggi c'è un sacerdote. Chissà che giorno è oggi. Che sia domenica? Che importanza ha? In ogni caso sento che il prete legge qualcosa. Una frase ad un certo punto mi arriva chiara: “La gioia del Signore sia la vostra forza”.
Forse agitandomi ho disturbato il prete e il rito, perché uscendo mi guarda interrogativo. Io sto ripensando a quella strana frase. I credenti sono gente strana, con poca logica e molto creduloni, chessennò come li si chiamerebbe credenti? Ma cosa c'entra la gioia del Signore con la fatica del vivere ogni giorno?
E come conoscere la gioia dello Sconosciuto? Quand'anche lui si rallegrasse dello spettacolo della nostra vita e della nostra agitazione in questo mondo, Lui che è in quell'altro mondo del quale noi non sappiamo nulla, come potremmo sapere che si rallegra? Cosa importa a noi della sua gioia? E come può la sua gioia darci forza?

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