giovedì 23 luglio 2015

Teologia matrimoniale ad usum clericos

Non c'è nulla di più sconcertante di sentire i preti che parlano di matrimonio.
Trita e ritrita improbabile retorica sull'amore e sul sacrificio che ha trasformato in pochi decenni l'Italia in un paese che fu cattolico. Tutti d'accordo sul fatto che la famiglia è importante e bisogna sostenerla ma ben pochi si domandano se tra le prediche dei parroci e la crisi della famiglia ci sia una qualche relazione.
Mi urge provare a dire il mio punto di vista. Urge, non perchè abbia qualche competenza, ma perchè faccio fatica a restare ancora zitto quando è così chiaro il pasticcio.


A distanza di qualche decennio dal fatale si mi rendo sempre più conto che aveva ragione Pasteur quando diceva che per arrivare alla verità serve tanta osservazione, tanta esperienza e poco ragionamento. Io voglio partire dalla mia esperienza e da quel che ho visto io, senza lasciarmi intimidire dalle dotte dissertazioni teologiche di questo e quello.
Anzitutto chiariamo: la verginità è meglio. Non nascondiamoci dietro un dito, non cerchiamo di mascherare con gesuitici sofismi una questione tanto chiara affermando la pari dignità di ogni vocazione.
Ciò posto e non ulteriormente argomentato ci si domanda allora perchè sposarsi.

"Meius enim nubere quam uri", "kreiton gar estin gamesai e puroustai", "meglio sposarsi che ardere" (Rm 7, 9b).

Ora, io non so nè voglio sapere chi ha formulato le promesse matrimoniali che gli sposi si scambiano, ma vorrei sapere dove se le è sognate, cosa c'entrano con il matrimonio:

Io, N., accolgo te, N., come mia sposa.
Prometto di esserti fedele sempre,
nella gioia e nel dolore,
nella salute e nella malattia,
e di amarti e onorarti
tutti i giorni della mia vita.


Nulla di tutto questo ha a che fare specificamente con il matrimonio. La fedeltà c'è anche alla Patria, alla Chiesa, alla squadra di calcio. L'amore e l'onore si devono ad ogni singolo essere umano. Per promettersi queste bazzecole non c'è assolutamente bisogno di sposarsi.
San Paolo è invece chiarissimo: "Quod, si non se continent, nubant" (Rm 7, 9a). Cioè, se non si contengono, se non sanno fare a meno del sesso, si sposino. Se ardono come arde il fuoco, che non può smettere di ardere neppure per un minuto senza cessare di essere fuoco.
Decodificando, ciò significa che se il tale riesce a fare a meno del sesso per una settimana o per un giorno, NON PUÒ sposarsi. Non lo dico io: lo dice San Paolo. Se invece non riesce a farne a meno, allora PUÒ (non "deve") sposarsi. Perciò la corretta formula dovrebbe essere:


Prometto di fare sesso con te tutti i giorni della mia vita, in ogni occasione e contesto, in casa e fuori casa, con voglia e controvoglia, con fantasia e senza fantasia, finchè morte non ci separi.


San Paolo non è un fesso e non usa le parole a caso: ardere, uri, puroustai. Il sesso è alla base e l'unica giustificazione del matrimonio. Ovvio che il sesso nel proprio orizzonte umano, reale, comporta qualche conseguenza come i figli, che di questo si deve tenere conto, che è disumano un comportamento che non tiene conto di tutto il contesto in cui si attua. Ma non ci sono scusanti: se riesci a fare a meno del sesso non puoi sposarti. Non devi sposarti. La Chiesa, l'umanità, Dio hanno bisogno di tutto il tuo impegno e la tua energia, senza limitazioni.
Se invece non sai farne a meno, allora sposati.


Ora, domandina a tante ragazzine di oratorio: ma avete idea che volenti o nolenti, implicito o esplicito, questo era il significato del vostro matrimonio?


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